Il silenzio mi avvolge completo, totale, impenetrabile. Ho aspettato in macchina sotto lo spot venti minuti buoni prima di caricarmi in spalla lo zaino e percorrere i 300 mt che mi separano dalla piccola spiaggia, incastonata nella prismata. La nebbia è fitta, densa, ovattata, palpabile ed ha fuso in un minaccioso grigio scuro tutto il paesaggio, sarebbe da pazzi rischiare la discesa senza un minimo di visibilità. La superficie del fiume è una tavola, corrente liquida che corre verso il mare cercando un po’ di calore nello sfregamento contro gli argini gelati. La spiaggia è nella morsa dell’inverno, fra le pieghe della sabbia resistono imperterriti gli ultimi residui della nevicata della scorsa settimana, aiutati e rinforzati dalla brina notturna. Il freddo intento di questa terza sessione targata 2015 opprime tutto, terra, cielo e acqua, in una morsa incolore e silenziosa, la palla arancio è già alta da qualche parte dietro l’argine di fronte, il problema è che non la vedo nemmeno l’argine di fronte, mentre gli alberi di questa sponda appaiono e scompaiono come scheletrici fantasmi nei pochissimi metri di visibilità che ora mi sono concessi.
Non c’è un salto nell’acqua, non c’è un battito d’ali nel cielo, non sento le macchine della vicinissima statale, la nebbia assorbe tutto fagocitando suoni, luci e odori. Eppure, con un po’ di pazienza, qualcosa si riesce a percepire...un soffio debole, nasale, regolare, è il respiro del fiume e a ben guardarlo, serrando le mani a coppa intorno agli occhi per proteggersi dal riverbero dell’acqua, sembra di vederne il torace che si alza e si abbassa nei movimenti ritmici della respirazione. Le ore successive sono un inno all’inverno, scandito dai lanci regolari dei feeders, da quel recuperare e rilanciare il contenitore bucato delle nostre speranze per non pensare al freddo, ai pesci che latitano, alle mani che hanno preso il colore rosso della pastura, alla condensa del fiato che sbuca dal paracollo ad annebbiare gli occhiali. Rimane solo quel salire e scendere regolare del Po, quell’alito appena percettibile che indica che il fiume c’è ed è vivo. Succedeva la stessa cosa con mio figlio, quando era piccolissimo. Mi addormentavo con lui, disteso sul fianco, tenendolo nella protezione di tronco e gambe piegate ad angolo retto, mi prendeva il mignolo con la mano, subito prima di addormentarsi, ed io rimanevo immobile e in silenzio guardandolo dormire, con il piccolo petto che si alzava e abbassava appena, un movimento minimo ma regolare nella calma di un respiro lievissimo che però, nella stanza, rimbombava nelle orecchie. Un bambino che dorme è l’immagine più limpida, chiara e pura della serenità. Sul fiume è lo stesso, fisso la corrente, vedo l’acqua scappare a valle, sento la serenità di un Po che spera in un 2015 migliore, anche perché peggiore sarebbe difficile e non solo per il meteo. E’ un’attesa lunga, poi il sole riesce a bucare la coltre grigia, appare timido e impacciato sulla destra, poco sopra l’avon della canna a monte,
e la piega giusta arriva subito dopo, il rumore della frizione squarcia l’aria, il carbonio urla di piacere sotto le testate di un pesce robusto, grasso e tremendamente in forma vista la stagione. Il guadino finalmente si tuffa infreddolito nell’acqua livida del fiume bagnando il primo barbo della stagione. Poi tutto torna quieto, e la coda del pesce che spinge verso il fondo è l’ultima increspatura di un fiume che subito torna compatto a fondersi con la nebbia.
Smonto lentamente dopo otto ore di lanci cadenzati, otto ore di pasturazione regolare e precisa sulla linea di pesca, otto ore con pochi pesci ma di grande soddisfazione. Prima di risalire il pendio dell’argine mi volto un’ultima volta a guardare il Po, il silenzio è di nuovo assordante e assoluto, non più rotto dagli “splash” dei feeders. Trattengo il fiato e mi sembra di sentirlo di nuovo, lento e regolare... è un respiro profondo e tranquillo nella serenità del riposo sotto la coltre delle ultime foglie secche sparse in golena.